Attualmente si stima che circa il 40% del cibo che produciamo viene sprecato, e con esso anche le risorse naturali ed economiche associate. Una quantità di cibo che basterebbe a sfamare oltre 3 miliardi di persone in più ogni anno.
Questi sprechi inoltre, secondo la Fao, costano all’economia globale 940 miliardi di dollari l’anno. E, stando a “Project Drawdown” (associazione per il contrasto a cambiamento climatico e disuguaglianze), sono responsabili della produzione annua di 70 miliardi di tonnellate di gas serra, pari a circa l’8% delle emissioni globali.
Per evitare tutto ciò è nato il movimento di upcycled food: si parla di upcycled quando si prendono degli scarti e si re-immettono all’interno della catena produttiva. Si va da bucce e semi di frutti, scarti dalla lavorazione di grani o prodotti che non raggiungono gli standard estetici richiesti dalla grande distribuzione.
L’upcycling è un trend trasversale a più campi di applicazione, ma è andato via via assumendo una risonanza sempre maggiore all’interno dell’industria del food, diventando un settore a sé stante con un valore stimato attorno ai 46,7 miliardi di dollari.
Negli Stati Uniti il fenomeno è così rilevante che ha portato a una vera associazione di settore, la Upcycled Food Association, che in due anni conta già 70 imprese produttrici di 400 prodotti.
Da quella che prende i prodotti in eccesso dalle fattorie e li trasforma in basi per zuppe e salse, o quella che trasforma la frutta e la verdura imperfetta, quindi non vendibile nei supermercati, in un sostituto dello zucchero che può essere integrato in prodotti alimentari e bevande. C’è chi produce snack fatti con scarti dei frutti del cacao, e veggie crisps a base di pomodori, zucchine e carote essiccati. Una startup piemontese è invece riuscita a usare il pane invenduto per sostituire un terzo dell’orzo utilizzato per creare birra artigianale.